Centochiodi

2007, Italia 90' di Ermanno Olmi con Raz Degan

Introdurrà Simone Fortunato critico cinematografico
alla discussione parteciperà la Prof.sa Isa Silanos

Un Cristo umano, solo umano
Un giovane professore di filosofia delle religioni, senza apparente motivo, fa un gesto sorprendentemente violento contro i libri della biblioteca universitaria, inchiodandoli con lunghi chiodi di ferro. Poi scappa, abbandona tutto o quasi – la lussuosa auto e il portafoglio ma non la carta di credito e il computer – e si rifugia in campagna, sulle rive del Po. Dove farà amicizia con gente semplice del popolo, che lo chiama Gesù: una ragazza innamorata della sua bellezza, amici che lo aiutano a costruirsi un’umile dimora, anziani che chiedono compagnia e parole di conforto. Ma la polizia è sulle sue tracce per quella singolare opera di vandalismo…

“Centochiodi” è un film che divide. Dalle prime proiezioni pubbliche, accompagnate da interviste, incontri, programmi tv, sono scaturite recensioni entusiastiche e stroncature feroci, esaltazioni e perplessità, elogi e critiche. Sul piano cinematografico, religioso, teologico, politico. Un film complesso, che dunque sembra aver centrato l’obiettivo: non lasciare indifferenti, e parlare di Cristo, della fede, dell’uomo, della vita che ha la supremazia sulle idee («c’è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri» dice il professore a una studentessa indiana prima del clamoroso gesto; oppure, «tutti i libri letti non valgono un caffé con un amico», come ha dichiarato più volte il regista). Se poi pensiamo che questo dovrebbe essere l’ultimo film di un grande maestro che ha dichiarato di abbandonare il cinema di finzione per tornare agli amati documentari, ci sono sufficienti motivi per analizzarlo con la ponderatezza che merita.

Chi scrive ama e rispetta la carriera di questo grande regista, autore di capolavori come “Il posto”, “L’albero degli zoccoli”, “La leggenda del santo bevitore”, “Il mestiere delle armi” (anche, ovviamente, di film non riusciti come “Il segreto del bosco vecchio” e il sopravvalutato “Lunga vita alla signora”). Ma personalmente non riusciamo a non giudicare quanto meno irrisolto “Centochiodi”. Dal punto di vista strettamente cinematografico, il film alterna momenti esteticamente notevoli e sequenze suggestive (il ballo al suono di “Non ti scordar di me”, subito seguito da un battello con festa danzante che passa sul fiume, che nella notte ricorda il Rex felliniano di “Amarcord”; lo sguardo sullo stesso fiume Po, lucente e misterioso; certi squarci figurativi, che richiamano per esempio l’Ultima Cena) a grossolanità insolite per Olmi (tutta la parte iniziale, tra flashback universitari e personaggi grotteschi come il rettore motociclista); ci sono incongruenze pur in un contesto da parabola allegorica (il professore universitario che gira con l’auto lussuosa? Quando va in crisi abbandona tutto, ma si tiene carta di credito e computer?). Raz Degan – ex modello ancora acerbo come interprete – recita discretamente, aiutato dal doppiaggio di Adriano Giannini, ma non tutti gli attori dilettanti del film regalano la freschezza che il loro utilizzo in genere suscita. Alcuni scivoloni, poi, si potevano davvero evitare: possibile che nessun addetto alla produzione si sia accorto del ridicolo involontario della scena in cui il professore, all’università, declama una frase di Karl Jaspers («viviamo in un mondo dove ogni azione si converte in profitto, tutto viene fatto in vista di un guadagno») che stride con il marchio in bella vista del pc su cui è letta? Si chiama product placement, è una pratica perfettamente legittima da qualche anno anche in Italia: ma fare un film pauperista e poi infilare uno spot (questo è il product placement) proprio mentre si attacca la società moderna volgarmente consumista fa sorridere… E in un’altra scena il famigerato computer (sempre con la marca bene in vista) appare altrettanto ridicolo…

Dal punto di vista dei contenuti, il film presenta alcuni interessanti spunti. Soprattutto uno: la rappresentazione di un’umanità semplice, che ama il contatto umano, la compagnia, il bere e mangiare insieme e antepone questa civiltà alla modernità violenta (le ruspe che vogliono spazzar via le abitazioni abusive di chi vive sul Po), e ovviamente la solidarietà verso questi umili. Il tutto, purtroppo, con un fastidioso senso di didascalismo: il cinema è sempre un misterioso incontro di idee, immagini e parole; in questo caso, questo mix è squilibrato, poco convincente, suona nobile ma un po’ troppo retorico (e quindi programmatico, non veritiero). Su questa umanità, fa presa questo personaggio misterioso che a un certo punto sembra davvero un Gesù contemporaneo: affascinante, gentile, incontrabile. Vero uomo.

Ma il contesto in cui si collocano questi spunti è dir poco confuso e alla lunga lascia l’amaro in bocca, soprattutto se è opera di un maestro che ha saputo descrivere in alcuni dei capolavori sopra citati la grandezza della tradizione cristiana. Questo Gesù Cristo moderno – così viene interpretato dagli anziani il professore scappato dall’università – non solo fugge dalla sua realtà, non solo devasta un patrimonio millenario di cultura e ricerca come i libri antichi (va bene, è una metafora: ma anche una metafora può essere violenta e fuori luogo, è questa lo è. Figurativamente può essere potente, ma suona inquieta e sinistra), non solo è strumento di un attacco demagogico alle religioni (tutte violente, incapaci di salvare il mondo, ultimamente false: perché questa mancanza di rispetto verso tentativi umani di ricerca del senso dell’esistenza? E anche il Cristianesimo, religione sui generis in quanto rivelata, non è attaccato direttamente ma i suoi preti ne escono malissimo), non solo si conclude con una “tirata” contro Dio («il giorno del giudizio dovrà rendere conto di tutta la sofferenza del mondo») che compiace autorevoli personalità laiciste (come si vede dalle molte interpretazioni, commenti, recensioni entusiastiche) ma non pare proprio l’urlo disperato di chi quel Dio lo sta invocando come Cristo in croce.

Soprattutto, è sì un Cristo umano, che si scaglia contro una fede formale che privilegia l’approccio intellettuale all’incontro carnale. Ma è anche un Cristo che non è Dio e non ha nessuna intenzione di esserlo, davanti al cui fascino nessuno è portato a chiedersi perché quell’uomo è così diverso e straordinario. E che quando alla fine se ne va lascia quell’umanità sola e triste (come triste è il film), con tanta nostalgia, senza alcuna parvenza di compagnia fondata dal suo passaggio in mezzo a loro. Triste come lo è questo film, che sembra esaltare un’amicizia come fuga da una realtà che non piace piuttosto che strumento per vivere, e magari cambiare, quella stessa realtà.

Antonio Autieri

Contro la religione delle regole, l’incontro e il fervore della fede
Inizia con i toni del film di genere. Una narrazione veloce, quasi frettolosa, che ci spinge verso una scioccante novità: quei libri crocifissi a terra che appaiono come misterioso atto di un artista folle. “Centochiodi” di Ermanno Olmi stranisce lo spettatore con una prima parte (quella legata all’indagine) che prende i toni dei film di Dario Argento, venati di mistero e della farsesca presenza di personaggi ingombranti e fuori luogo: il preside dell’università è un motociclista, la detective pedante, il sacerdote ha un occhio velato. Eppure tutto questo macchiettismo, portato alle estreme conseguenze con l’apparizione del protagonista con il suo aspetto da modello e una splendente Bmw, crea l’attesa per il cambiamento inevitabile che avviene sia nella ricerca spirituale del personaggio principale, sia nella forma estetica del film.
Il professore scappa lasciandosi alle spalle la città e arriva al fiume, al Po, che lo accoglie tra le sue rive alte: lo splendore della natura, forse dimenticato, è il primo risveglio dal mondo di carta da cui il giovane professore è ormai ossessionato. Poi verrà l’incontro: la gente del luogo, che con i volti segnati dal tempo ha bisogno di lui per tornare a sentirsi raccontare il Vangelo, le parabole ormai vive soltanto in vaghi ricordi. Da libro a parola vivente, il messaggio semplice di Cristo passa nel gesto della condivisione del pane e del vino, passa attraverso lo sguardo limpido di un intellettuale che scopre la poesia nelle parole degli umili, passa nelle scelte di Olmi attento ad avvicinarsi alle persone cogliendo con il suo cinema concreto momenti d’inaspettata grazia. Chiara allegoria della vita di Cristo (seppur con qualche passaggio controverso), la storia procede come metanoia, in cui il professore dovrà ripercorrere il tradimento, l’improvviso allontanamento, il confronto finale e la riapparizione. Forse proprio quest’ultimo è il punto più alto del film: i bambini lo vedono sugli argini del fiume, gli uomini lo incontrano sulla strada, tutti sono pronti ad accoglierlo. Una tavola imbandita e la strada piena di luci: torna Signore, ti aspettiamo! Sembrano invocare i pescatori. Ma l’uomo deve conoscere l’attesa: tra le lacrime di una novella Maria Maddalena (qui fornaia dalla bellezza paesana) riscopriamo la tristezza del momento in cui si perde la tangibile compagnia di Cristo. Non c’è dolore in quel pianto, ma c’è gratitudine e nostalgia. La velata tristezza dell’uomo in attesa trova la sua compiuta immagine nella nebbia che sale a coprire il paesaggio.
Un film che è frutto della riflessione spirituale di Olmi: contro l’astrattezza della religione, se intesa soltanto come un insieme di dogmi e di regole, e a favore del fervore della fede che diventa modo di essere persona e soprattutto, come emerge dall’intero corpus del regista, un modo di guardare la realtà.

Daniela Persico

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